
Un mio studente mi ha appena inviato la relazione che fa parte della sua prova di esame.
Ho scelto volutamente l’argomento per i miei studenti della specialistica in infermieristica ed ostetricia perché sono persone che lavorano già da anni, hanno una professionalità consolidata e, se decidono di fare la fatica di frequentare un ulteriore corso, sono molto motivati. L’andamento del tema non mi sorprende, è una persona molto attenta, con grande esperienza di reparto, lavora da anni presso una struttura di “fama” a Milano. Racconta di sé come paziente – mesi fa si è fratturato malamente una gamba in un incidente di moto – e del primo impatto con il pronto soccorso: i colleghi che, non conoscendolo e quindi non avendolo identificato come tale, dicono davanti a lui, con una gamba a pezzetti e tanto dolore, “Ci voleva proprio un altro a fine turno…” Non è una esperienza singola, se facciamo mente locale capita a tutti noi di vivere il rapporto con chi arriva a fine turno o dopo una giornata intensa come un ulteriore peso. Non una persona che sta male ed è preoccupata, anche se lo facciamo senza “malizia”, come una sorta di riflesso condizionato appunto dalla routine. Il 50° studente che ti fa la stessa domanda, il collega che sceglie sempre il momento meno opportuno per parlarti di una rogna di lavoro e così via. La ripetitività delle situazioni si affida alle procedure, alle linee guida, all’esperienza, insomma si crea un inconscio corto circuito in cui l’attenzione a quella particolare persona, a quel particolare problema, viene diluita dalla pratica.
D’altra parte molti studi hanno dimostrato che l’errore medico cresce esponenzialmente con il tempo di rapporto tra medico e paziente. Contrariamente a ciò che pensiamo, se il medico che mi segue mi conosce da più di 5 anni, fatalmente non prenderà in seria considerazione il mio ennesimo mal di stomaco, il mal di testa, il malessere. Quante volte glielo abbiamo già raccontato? E perché proprio ora dovrebbe essere diverso? Il mio bravo studente mi scrive che ha capito da allora che non si può prendere alla leggera il rapporto con il paziente, che è diventato più attento a non esprimere il suo fastidio di fronte a chi si rivolge a lui e sono certa che è serio, in fondo ha ancora un paio di chiodi in una gamba e la vicenda è ancora molto fresca. Mi piacerebbe rivederlo tra 10 anni e capire se è ancora così, o se l’abitudine ha colpito ancora.