di Silvia Giralucci
Abbiamo tutti sperimentato quanto sia difficile entrare e rimanere in una relazione, anche se non sempre siamo capaci di spiegare perché. Giuseppe Varchetta, psicologo di formazione psico-socioanalitica, nel corso degli incontri “Gli Orizzonti della Salute”, organizzati alla Basilica Palladiana di Vicenza da Fondazione Zoé – Zambon Open Education, ha spiegato con un lungo excursus come alla base di ogni buona relazione, da quella genitoriale, a quella che lega due partner, ma anche un capo e un collaboratore al lavoro o un medico e un paziente ci sia la capacità di “riconoscimento” dell’altro da parte di chi esercita l’autorità. E – ha aggiunto – nelle relazioni d’amore, la capacità di ammettere la propria fragilità e imperfezione, cosa non facile perché in qualche modo questo destruttura la nostra identità.
“L’uomo – ha detto Varchetta – è l’unico tra i mammiferi superiori a nascere senza essere in grado di gestire la propria sopravvivenza psicofisica. Quando nasciamo dipendiamo dalla madre (o chi per essa) e obbligatoriamente noi stabiliamo con chi ci accudisce una relazione che è connessa con la nostra possibilità di sopravvivere”. Questa situazione di dipendenza obbligata che caratterizza i nostri primi anni di vita all’interno di una relazione ci porta per tutto il resto della vita a continuare ad aver bisogno dell’altro.
“Naturalmente – afferma Varchetta – non si resta assolutamente dipendenti dall’altro, si diventa adulti, ma la traccia di quella dipendenza resta, ed è una traccia a volte dolorosa. Lo spazio intersoggettivo della coppia è fondamentale nella nostra vita sociale. La prima coppia è quello della bimba o del bimbo con la madre (o di chi la sostituisce), poi a questa coppia subentra quella tra discente e docente, la coppia moglie/marito o compagno/compagna o quella capo/collaboratore e poi ancora quella paziente/medico. Queste sono le cinque categorie delle coppie: tuttavia essere in due genera sempre ansie. Madre/docente/Partner/capo/medico hanno un grande potere che i latini, i nostri padri, chiamavano auctoritas… chi ha autorità ha il dovere di far crescere le persone che ha in cura. È questo il compito primario di un capo: far crescere. L’obiettivo di chi ha l’autorità è di rendere autonoma nel tempo la persona che si è rivolta a lui. Autonomia è uno spazio di autenticità”. Perché questo avvenga però è fondamentale che ci sia il riconoscimento, cosa che avviene solo quando c’è un obiettivo comune. “Non si stabilisce – chiarisce Varchetta – una buona relazione tra chi ha bisogno e chi porta aiuto se non c’è un riconoscimento da parte di chi porta l’autorità. Non c’è possibilità di diventare autonomi se prima non si è riconosciuti come tali”.
Il punto essenziale è nel fatto che la possibilità di conoscenza degli stati mentali dell’altro passa attraverso il coinvolgimento esistenziale nel suo mondo emotivo. L’indifferenza è la crisi del processo di riconoscimento perché definisce l’altro in una posizione fissa, senza scampo, senza possibilità che ci sia qualcosa da fare o da dire”.
“Mi auguro – ha detto Varchetta chiudendo la sua relazione – che nella vostra vita l’indifferenza abbia poco spazio e vi sia tanto spazio per il riconoscimento”.
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